Intervistiamo per Europolitiche Angelo Ariemma, saggista e uomo di cultura federalista, sulla narrazione intellettuale e di civiltà propria dei valori dell'Europeismo. Ne emerge una prospettiva, oltre che una necessità storica, di coesione transanzionale che si rivela come vero antidoto di ogni riproposizione nazionalista erosiva dell'Unità europea. Una rilettura alta, secondo Ariemma, dello Spirito di Ventotene può vivificare la cultura federalista e di pace nell'Unione immunizzandola ancor meglio dall'uso dell'egemonia come fascinazione storico-politica di alcune sue nazioni.
Senza arrogarsi il primato di continente della cultura, è indubbio che nell'Unione il valore della conoscenza è di fondamentale importanza per innescare nuovo sviluppo umano prima che economico. Quali evoluzioni prevede?
Dal mio punto di vista è stato e continua ad essere il grande punto di incontro e di sviluppo della cultura. Intendo il termine cultura come quella sfera di sapere umano dove si incontrano la scienza e la tecnica, con il fare artigianale e con le astrazioni dell’arte e della letteratura. Del resto basta leggere quanto nel 1952 diceva Guido Piovene a proposito delle Premesse culturali dell’unità europea (ora nel mio Arcana Imperii, pp. 11-24).
Detto questo e non dimenticando la cultura di altri popoli, che però non hanno inciso così profondamente nell’evoluzione della società globalizzata; mi chiede quale sarà l’evoluzione culturale dell’Europa e, aggiungo, del mondo. Non posso dire di essere ottimista. Certo, posso fare la tara della persona anziana che sempre rimpiange il passato e non comprende le nuove mode. Tuttavia nei libri che leggo, nella musica
che ascolto, nell’arte che parla a se stessa – in questo l’episodio di Sordi Le vacanze intelligenti del film Dove vai in vacanza è un capolavoro – non vedo quell’afflato etico che si rivolge a un pubblico e a una società per cambiarla. Quel pubblico, disposto a comprendere la complessità non c’è più: mangiato dalla velocità degli spot pubblicitari e delle comunicazioni social. E non vedo più la poesia, la qualità narrativa di un Pavese o di un Calvino, tanto per citare solo due nomi non troppo lontani, che hanno caratterizzato la nostra letteratura e le nostre letture, pur da prospettive molto diverse.
L'europeismo come innesco di un rinnovamento civile e transnazionale, è anche una narrazione culturale e di civiltà. In quale misura e in quali forme le regressioni nazionaliste in atto in alcuni Paesi ripropongono universi ideali spesso anacronistici? Sono erosive rispetto ad una visione aperta e coesiva del progresso culturale?
Direi non solo sono erosive, sono molto pericolose. A me sembra che
improvvisamente – ma naturalmente non è così; semplicemente non ci siamo accorti di quanto accadeva intorno e sopra di noi – siamo tornati a vivere la Storia di cento anni fa. Questo ritorno al nazionalismo, l’idea che noi siamo migliori degli altri – questo detto da ciascun popolo per sé – non può che portare a conflitti, che del resto già stiamo vivendo. E dietro la cultura del nazionalismo ci sono sotterranee lotte commerciali, nascoste brame di supremazia di materie prime e di fonti energetiche
(questo vale per il Donbas, come vale per Taiwan).
Questo nasconde la cultura del nazionalismo. Questo è accaduto ai primi del Novecento, quando, dopo 50 anni di pace e di relativo benessere e la dimensione culturale era prettamente europea ed europeista, improvvisamente anche la cultura è precipitata nello stesso magma che ha portato i popoli a spararsi dalle trincee senza sapere perché.
Quali autori nelle lettere, nelle arti e nelle scienze umane associa al valore dell'Europa unita?
Ben difficile rispondere a questa domanda senza fare un lungo elenco che parta dall’antico mito del Ratto d’Europa, attraversi il Dante che vedeva nella Monarchia Imperiale l’unica possibilità di salvare la christianitas europea, e arrivi fino alla Storia dell’Idea d’Europa dello storico Federico Chabod, fino ai Costituenti che hanno voluto specificare nella Carta fondante la nostra rinascita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” (Art. 11).
Ma qui mi limiterò a fare pochi nomi, che più di altri rappresentano per me l’afflato europeista (e non solo).
Stefan Zweig, grande scrittore e intellettuale della Finis Austriae, nella sua autobiografia, Il mondo di ieri, descrive appunto la fine della Belle Époque come sogno di pace e di europeismo, di fronte alla insulsa tragedia della Grande Guerra. E, ancora poi, l'avvento del Nazismo e delle sue aberrazioni, che lo costringeranno all’esilio, non prima di aver tentato con i suoi articoli, oggi noti come Appello agli Europei, di evitare la nuova tragedia che si andava profilando.
Giacomo Leopardi, ne La ginestra trova le parole definitive per un’umanità unita, come unica soluzione verso il suo ineludibile destino di consapevole finitudine: “Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero, / sol per cui risorgemmo della barbarie in parte, e per cui solo / si cresce in civiltà, che sola in meglio / guida i pubblici fati. […] Costei [la Natura] chiama inimica; e incontro a questa / congiunta esser pensando, / siccome è il vero, ed ordinata in pria / l'umana compagnia / tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia /con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune”.
Ludwig van Beethoven: questo ossimoro vivente, di musicista gravato dalla sordità, nella sua opera esprime l’immane lotta dell’uomo contro il destino, per arrivare a quell’Inno alla gioia e alla fraternità umana, divenuto il simbolo pregnante dell’Unione europea.
Lo spirito di Ventotene, isola dell'esilio imposto dal fascismo agli antesignani dell'europeismo, serba come uno scrigno un fine ultimo: la pace in Europa dopo guerre sanguinose. Come si può vivificare la cultura pacifista nell'Unione immunizzandola ancor meglio dall'uso dell'egemonia come fascinazione storico-politica di alcune sue nazioni?
Metto qui naturalmente i grandi europeisti che ci hanno mostrato la giusta via. Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann e suo fratello Albert; Ernesto e Ada Rossi; Eugenio Colorni e Mario Alberto Rollier, il quale nella sua casa di Milano ospitò e partecipò alla fondazione del Movimento Federalista Europeo e del suo organo di stampa “L’Unità Europea”.
Se tutto questo fosse raccontato nelle scuole, nei giornali, nelle televisioni, già sarebbe un passo avanti per vivificare una cultura europeista, di contro alla narrazione nazionalista oggi prevalente.
Inoltre, poiché Erasmus è rivolto a una minima parte dei giovani europei,
bisognerebbe attivare un Servizio Civile Europeo, che faccia incontrare i giovani dei diversi paesi tra loro e con le varie realtà sociali e culturali che sono la linfa dell’Europa che vogliamo: “Unita nella diversità”.
Per me sarebbe anche fondamentale leggere nelle scuole, come si leggono Dante e Manzoni, l’autobiografia di Ursula, Noi senza patria, di una ragazza costretta a esiliarsi dalla sua terra per trovare solamente in ambito europeo la sua vera patria; e soprattutto l’autobiografia di Altiero, Come ho tentato di diventare saggio, un testo perfino poetico, fondamentale nel raccontare un percorso di crescita umana e intellettuale, realmente laica, al di là di vetuste ideologie, alla scoperta di quella nuova, precipua, visione politica che vede il progresso nelle forze che lottano per l’unione tra i popoli europei, e la reazione tra le forze che hanno ripristinato gli stati nazionali e continuano, oggi più di ieri, a costruire ideologici muri tra le nazioni e tra i popoli, vittime di questi rigurgiti di antiche idealità nazionaliste. Così si chiude la Prima parte, allorché dopo la caduta del Fascismo, Spinelli torna sul continente alla vita attiva: “La mia solitaria fierezza era di tutt’altra natura, perché nessuna formazione politica esistente mi attendeva, né si preparava a farmi festa; ad accogliermi nelle sue file. Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una battaglia nuova e diversa – una battaglia che io, ma probabilmente per ora solo io, avevo deciso di considerare, benché ancora inesistente, più importante di quelle in corso in cui andavano ad impegnarsi tutti gli altri. Con me non avevo per ora, oltre me stesso, che un Manifesto, alcune Tesi e tre o quattro amici, i quali attendevano me per sapere se l’azione della quale avevo con loro tanto parlato sarebbe veramente cominciata”.
Noi non partiamo dal nulla: quella battaglia da lui cominciata è proseguita e ha portato anche dei risultati; ma oggi, mentre si addensano nuove e neri nubi sui cieli del mondo, saremo noi degni di quella stessa “solitaria fierezza”?
L'intervista ad Angelo Ariemma è a cura di Antonio De Chiara @europolitiche.it