In occasione dell'uscita del pregevole volume “Leggere Svevo. Tra Darwin e Freud.” (Tab Edizioni, maggio 2025) abbiamo chiesto all'autore, il nostro redattore Angelo Ariemma, di introdurci alla figura del celebre scrittore triestino nel più generale contesto della cultura europea del tempo e in prospettiva attuale.
Ettore Schmitz (questo il suo nome anagrafico) nasce e vive nella Trieste asburgica di fine ottocento, è quindi impregnato della cultura germanica (compie i suoi studi a Segnitz, in Baviera) da Schopenhauer a Nietzsche a Freud. Schmitz sceglie lo pseudonimo di Italo Svevo proprio per alludere alle due culture, l'italiana e la tedesca, che segnano la sua formazione di triestino.
Naturalmente però vive in quella comunità triestina che guarda anche all’Italia come propria patria (e lo diventerà dopo la Grande Guerra) che si sviluppa negli ambienti giornalistici e amicali che Svevo frequenta: Silvio Benco, Umberto Saba, Bobi Bazlen, Umberto Veruda.
I suoi primi interessi letterari lo avvicinano al Naturalismo francese, in particolare Émile Zola, attraverso il quale si avvicina alla teoria evoluzionista di Charles Darwin e alla condizione degli umili e alle teorie socialiste. Mentre il suo grande interesse per il teatro (testimoniato anche dalla sua collaborazione con l’ “Indipendente” di Trieste) gli fa conoscere quella dimensione tipicamente borghese esplorata da Henrik Ibsen.
Divenuto industriale per conto della ditta del suocero, frequenta anche la Londra che si apre alla prima industrializzazione; qui il suo giovanile socialismo si confronta con la sua nuova funzione “padronale”; però il suo sguardo di intellettuale resta comunque vigile verso la reale condizione operaia e la vita di una città in piena e rapida espansione (anche attraverso la lettura delle opere di Charles Dickens). Così come il suo occhio di scrittore lo porta ad apprezzare il giovane James Joyce, al quale si lega di amicizia e che diverrà il primo sponsor della sua opera, facendola conoscere in Francia ai critici Valery Larbaud e Benjamin Crémieux.
Da qui partirà la fama di Italo Svevo e anche il suo interesse per la nuova letteratura francese, non più naturalista, ma segnata dall’opera di Marcel Proust, il quale, insieme a James Joyce e Franz Kafka, aprirà la via al romanzo del Novecento; al quale Italo Svevo fornisce il suo contributo specificatamente italiano, e al contempo infallibilmente europeo. Infatti la sua opera ben si inscrive in quella crisi della civiltà europea che sfocerà nella Grande Guerra: una crisi storica, ma anche degli individui, della dimensione individuale che “vive” nella Storia. Il quid dell’opera di Svevo si situa in tale crinale: una riflessione interiore, che si apre al senso dell’umana esistenza, valida per se stessa, in quanto in eterno conflitto tra istinti primordiali e convenienze civili; ma anche inscritta in una determinata convergenza storica, nella quale più cocente si fa quel disagio, vissuto da molti intellettuali europei, i quali vedono risvegliarsi il Leviatano della distruzione di quella civiltà con tanta fatica costruita dai padri.
Il suo essere nella Storia, in quella crisi storico-culturale all’inizio del XX secolo, il suo porsi, a un tempo, consapevole di quella crisi e immerso nella propria “coscienza”, lo pone, non soltanto come uno dei narratori italiani della modernità novecentesca, ma anche come uno degli scrittori ineludibili in questa crisi della postmodernità che ha aperto il XXI secolo e dato la stura a quel rigurgito di irrazionalità, che apertamente sentiamo intorno a noi, consci di essere chiamati a una nuova “resistenza” culturale, come fecero gli intellettuali del Primo Novecento.
Da sempre, dall’antica mitologia alla moderna letteratura, il racconto di storie e di vite, l’analisi dei sentimenti e dell’azione umane, ci ha aiutato a comprenderci, a trovare negli scrittori quelle parole che aprono alla conoscenza di sé e alla comprensione del mondo, quel racconto del passato che apre spiragli sul presente, quella memoria di noi umani che ci apre la mente alla solidarietà, perché tutti siamo fatti della stessa pasta e viviamo le stesse paure, le stesse angosce, come gli stessi desideri e le stesse aspirazioni.
Si potrebbe dire che la prima solitudine di Svevo, come intellettuale non integrato in quel mondo progressista della Belle époque e del mito dell’Austria-Ungheria; si integri, dopo la Grande Guerra, al generale smarrimento dovuto al crollo di quel mondo e di quel mito, e lo apra a quella visione ironica (al fondo tragica) di una impossibilità a conoscere i veri intendimenti delle umane azioni. Leggere Svevo non è soltanto mero esercizio letterario, ma può diventare anche riflessione sull’ethos europeo, su quella Storia comune tra la sua epoca e la nostra: la crisi dell’Europa divenuta crisi del Mondo, un mondo dove domina la tecnologia, la quale però sembra non poter essere governata da una ragione incapace di reggere la velocità dei cambiamenti tecno-sociali, spinta ormai ai margini da quelle pulsioni di “libertà” oltre ogni “limite”, da quel magma di paure e insicurezze che sembra ormai governare le scelte di ognuno, come pure le scelte di governa le sorti del mondo, con la sua sola idea di soddisfare le proprie egoistiche pulsioni e gli interessi della propria parte.
Angelo Ariemma per @europolitiche.it