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Nazionalismi e pulizia etnica in Bosnia-Erzegovina di Simone Malavolti. Un libro che apre una prospettiva

03-06-2025 15:46

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Nazionalismi e pulizia etnica in Bosnia-Erzegovina di Simone Malavolti. Un libro che apre una prospettiva

L'intervista alla'autore a cura di Michele Carbotti

Sabato 5 Aprile si è tenuta, presso la Libreria Gioberti di Firenze, la presentazione del libro “Nazionalismi e pulizia etnica in Bosnia-Erzegovina” di Simone Malavolti (Edizioni Pacini, 2025). L'autore analizza il processo di disgregazione della Jugoslavia e la violenza dei nazionalismi etnici attraverso il racconto dei cambiamenti avvenuti nella città della Bosnia settentrionale di Prijedor. Dal 1991 la volontà egemonica del nazionalismo serbo, già prima di prendere il potere, sovverte progressivamente a Prijedor una lunga tradizione di convivenza, il komšiluk ,ovvero quel “buon vicinato” fatto di tolleranza, rispetto e pluralismo tipico della Bosnia-Erzegovina in base al quale persone e famiglie si erano fatte visita e scambiate gli auguri a prescindere dalla loro etnia e confessione religiosa. La storia di quegli anni coincide con il passaggio da uno Stato multinazionale ad uno Stato nazionale puro, attraverso i mezzi atroci prima della segregazione, poi dell'intolleranza fino ad arrivare all'individuazione del tuo vicino di casa come diverso e come nemico e così alla sua eliminazione finale.

Riportiamo di seguito alcuni passaggi dell'intervista condotta all'autore in questa occasione.

 

Perché per affrontare un tema che sta tornando così attuale in Europa come il fenomeno del nazionalismo, ha scelto di parlare proprio della città di Prijedor, in Bosnia Erzegovina?

 

La cittadina bosniaca è senza dubbio emblematica per la sua storia e come caso studio per dimostrare come il processo di affermazione del nazionalismo si sia radicalizzato, fase dopo fase. Prijedor è, infatti, la prima città dove ricompaiono in Europa i campi di concentramento dopo la Seconda Guerra Mondiale  Negli anni 2000 ho vissuto a Prijedor un’esperienza importante in prima persona che mi ha coinvolto profondamente tanto da spingermi ad approfondire e condurre una ricerca storica per un dottorato in discipline storiche dell’Università di Firenze. Attraverso l'analisi di diverse fonti e, non ultimo, dei giornali locali ho ricostruito queste terribili vicende a partire dagli anni Ottanta fino al termine del conflitto. Sono anni molto diversi dal contesto attuale: internet ancora non era presente e i mezzi di comunicazione vivevano una fase di transizione dal controllo della Lega dei comunisti ad una forma di pluralismo, ben presto schiacciata dalla presa di controllo da parte di alcuni profittatori serbi per farne strumento della loro propaganda. Uno strumento fondamentale per distruggere l’abitudine alla convivenza pacifica. Tra le prime mosse che preparano questo piano vi è l’interruzione del segnale televisivo proveniente da Sarajevo e Zagabria per lasciare campo libero alla voce unica proveniente da Belgrado e Banja Luka, già nelle mani del  Partito Democratico Serbo (SDS). Ma per completare la trasformazione della società, i nazionalisti serbi, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1992, attuano un vero e proprio colpo di mano e prendono il controllo del centro città e di tutte le principali istituzioni: municipio, caserme della polizia e redazione del giornale. L'obiettivo è creare un “territorio serbo puro”. Per realizzare questo programma, ne sono ben consapevoli, è necessario l’uso della forza, della violenza.

 

Come si passa dalla società jugoslava ai cambiamenti avvenuti nella città di Prijedor dove inizialmente la convivenza di persone provenienti da diverse etnie e religioni (il komšiluk), quel principio che spiega come il vicinato nella cittadina bosniaca andava ben oltre la divisione politica e religiosa tra croati, serbi, bosniaci e musulmani e in cui la comunità era davvero abituata a condividere tutto e quali sono i risvolti tragici di questo cambiamento, fino ad arrivare alla pulizia etnica?

 

La Jugoslavia socialista, in seguito alla rottura tra Tito e Stalin nel 1948, aveva inaugurato un regime aperto alle influenze occidentali sia in termini economici sia in termini culturali. Le generazioni che si trovano travolte dal nuovo conflitto nazionalista sono cresciute in un paese che ha mantenuto intatte le identità nazionali secondo un modello di pluralismo e di convivenza paritaria. Ma sono soprattutto cresciute in una quotidianità fatta di condivisione di tutti gli aspetti della vita: dalla scuola, al lavoro fino alla tradizionale usanza di rispettare vicendevolmente le particolarità di ogni religione. La società multietnica e multinazionale tipica della Bosnia, che appare così frammentata secondo un modello tipicamente occidentale, è frutto principalmente di due eredità di governo: quella ottomana prima e quella austriaca dopo il 1878. Dopo l’arrivo degli ottomani nel XIV secolo, questa regione periferica diventa un luogo di accoglienza e tolleranza di numerose popolazioni escluse dall’Europa occidentale. Molti ebrei sefarditi in fuga dalla cattolicissima Spagna, infatti, si stabiliranno proprio a Sarajevo dove oggi, anche dal punto di vista urbanistico, si osserva a distanza di poche centinaia di metri la presenza di chiese ortodosse, cattoliche, moschee e finanche sinagoghe. Nessuna forma di ghetto si è mai registrata in questa città. Il discorso poi si complica con la fine di questi imperi e la nascita degli Stati-Nazione, un modello che non prevede società così frammentate dal punto di vista nazionale. In seguito alla prima guerra mondiale, nasce quindi la Jugoslavia cosiddetta monarchica, sotto la dinastia serba dei Karadjordjevic. E’ nel corso della seconda guerra mondiale che vengono creati i presupposti per la nascita di una seconda jugoslavia sui pilastri fondativi del socialismo e del federalismo, modello di rispetto e tolleranza tra nazioni. Questi pilastri vengono a mancare alla fine degli anni ottanta con la caduta del muro di Berlino, un momento che coincide con una profonda crisi economica e istituzionale del paese. In questa fase, alcuni politici strumentalizzano lo stato d’animo generalizzato di paura dovuta alla crisi indicando il capro espiatorio: rispolverano il modello nazionalista indicando, a seconda delle repubbliche, il nemico da colpire. In Bosnia, questo progetto politico ha effetti ancor più devastanti data la complessa struttura demografica del paese.

L’orrore a cui si assiste a Prijedor presenta diversi elementi  eccezionali, ma il progetto politico messo in atto qui dall’SDS non è difforme dal modello generale attuato in tutte le aree contese. Si assiste al passaggio da uno Stato multinazionale ad uno Stato nazionale puro, attraverso una sequenza atroce che va dalla costruzione dell’immagine del nemico dell’ex concittadino, alla discriminazione, alla sua segregazione, fino ad arrivare, in molti casi, all'eliminazione fisica. In seguito alla presa del potere cittadino l’obiettivo del nuovo potere cittadino è la conquista delle zone a maggioranza musulmana e minoranza serba. Da qui nasce la “pulizia etnica" che si traduce in minacce tese a fargli abbandonare il territorio fino all’uccisione e alla deportazione nei tre campi di concentramento: Omarska, Keraterm per gli uomini adulti e Trnopolje, per donne, bambini e anziani. Le autorità li chiamano “centri di investicazione”, ma sono in realtà campi di prigionia e di tortura. Luoghi chiusi ermeticamente dove è possibile agire una violenza sistematica su una popolazione disarmata. Al di là del fatto che non siamo di fronte a campi di sterminio sul modello nazista, qui si assiste però ad una “strana convivenza” perché aguzzini e vittime appartengono tutte allo stesso milieu sociale, parlano la stessa lingua e hanno condiviso la vita fino a pochi giorni prima. Qui avviene un fenomeno non nuovo nella storia delle violenze di masse, l’elitocidio, ovvero  l’eliminazione mirata di personaggi in vista, politici, intellettuali, ma anche medici, dirigenti e giudici. Le vittime sono selezionate per il loro ruolo all’interno della società, in quanto potenziale minaccia alla stabilità e alla legittimità del nuovo stato “serbo”.

 

E' naturale chiedersi a questo punto, a distanza di trent'anni dalla fine del conflitto dei Balcani, a che punto siamo oggi col percorso di integrazione e di coesione sociale e chiedersi in che modo possa avvenire a breve l'allargamento dei confini dell’Unione Europea verso i Balcani Occidentali e in particolare della Bosnia Erzegovina che tanti auspicano.

 

Nel 1994 Alexander Langer propose di avviare il processo di integrazione delle ex repubbliche jugoslave all’interno dell’UE. Purtroppo questo non è avvenuto allora e non è stato considerato neanche successivamente. La loro adesione e integrazione è avvenuta infatti in maniera graduale secondo criteri economici (solo la Slovenia e la Croazia sono attualmente membri UE). La Bosnia-Erzegovina che non si è mai risollevata economicamente dal conflitto vive una difficile crisi istituzionale dovuta all’impianto degli accordi di Dayton (1995) e attualmente scossa dal cambiamento degli equilibri internazionali (conflitto in Ucraina).

Attualmente l’integrazione europea che fino a qualche anno fa rappresentava un obiettivo per la cittadinanza bosniaca, risulta oggi essere quasi un discorso del passato. La società civile è per lo più paralizzata e vittima di una continua propaganda fatta di odio e immagini di distruzione e le speranze per il futuro sono spente.

L’alto rappresentante dell’UE in Bosnia-Erzegovina ha cercato di mantenere una certa coesione interna al paese, ma il suo operato si muove sempre all’interno di una cornice istituzionale che è quella dettata nel 1995. Le grandi riforme non sono state attuate e i politici locali continuano a giocare il “ruolo” dei provocatori distruttori invece che lavorare a reali riforme costruttive. Dalla fine del conflitto, ormai trent’anni fa, le istituzioni della Republika srpska attuano un vero e proprio negazionismo nei confronti dei massacri degli anni novanta che, seppur a fasi alterne, risente profondamente dei cambiamenti anche a livello internazionale ma che sono funzionali a creare pressioni interne al paese. La foto scelta per la copertina del mio libro non è casuale e mostra bene la politica della “pulizia etnica” è ancora attuale. Sul murales infatti campeggiano due date 1942 e 1992, la prima in ricordo della liberazione della città dai nazi-fascisti e ustascia, la seconda la “liberazione” della città dai concittadini musulmani.

 

 

Simone Malavolti, nato a Firenze nel 1976, è uno storico specializzato nei paesi jugoslavi e dei Balcani occidentali nell’età contemporanea. Ha conseguito un primo dottorato di ricerca all’Università di Perugia e un secondo a Firenze. Da anni collabora con l’Associazione Trentino con i Balcani (ATB) e con l’Osservatorio Balcani e Caucaso.

 

A cura di Michele Carbotti per Europolitiche.it


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